REMO BIANCO

LE IMPRONTE DELLA MEMORIA
Milano, Museo del Novecento
Dal 5 luglio al 6 ottobre 2019
a cura di Silvana Gatti
“Certo non posso mai dire ‘sto lavorando a questo’,
si, lavoro anche a questo, ma nel frattempo
continuano dentro di me le risonanze di altri momenti,
di altri periodi che devo portare avanti.”
Remo Bianco
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Il Museo del Novecento di Milano ospita un’importante mostra di Remo Bianco, Le impronte della memoria, a cura di Lorella Giudici, attraverso oltre 70 opere dell’artista che ripercorrono le tappe della sua ricerca. Promossa da Comune di Milano| Cultura e realizzata dal Museo del Novecento in collaborazione con la Fondazione Remo Bianco, la mostra è allestita nel percorso museale del Museo, coinvolgendo anche gli Archivi. Per visitare una rassegna dedicata a Remo Bianco è necessario dapprima allontanarsi mentalmente dai canoni tradizionali dell’arte, che la vedono circoscritta nei confini della pittura o della scultura classica. Il secondo passo da compiere, per il visitatore, è quello di guardare all’interno delle proprie mura domestiche per fermarsi un attimo a riflettere sulla mole di elementi utili o superflui di cui ciascuno di noi è circondato. Alzi la mano chi, dovendo liberare i propri armadi da cose superflue per far posto ad altre, non abbia avuto un tuffo al cuore: che tristezza disfarsi di quei pettinini con cui da bambini pettinavamo le Barbie, o gettare quelle conchiglie raccolte durante quel viaggio al mare, o lo specchio da borsetta della bisnonna… Ogni oggetto è un ricordo di un preciso momento della nostra vita o di quella dei nostri cari. Perché ognuno di noi, chi più chi meno, nella società del benessere è diventato un accumulatore. Remo Bianco era un accumulatore per eccellenza, che per non disfarsi dei suoi ricordi ne ha fatto arte.
Accomunato a Filippo de Pisis nello spasmodico collezionismo di inezie, tra cui conchiglie, piume, foglie, ritagli di carte, stoffe e legni, Remo Bianco ama concentrarsi sul frammento, per dirla con una sua definizione, sul “Particolarismo”. La sua è una vita da “ricercatore solitario”, come si era autodefinito, alla continua ricerca di idee nuove, frutto della sua fervida fantasia che lo ha reso un artista molto peculiare e di difficile classificazione. Bianco vuole costruire quello che Marcel Proust definisce “L’immenso edificio del ricordo”. Il ricordo, per Bianco, è un qualcosa che non si può abbandonare, in quanto testimonianza di un attimo di vita da non dimenticare.
Questo suo spasmodico accumulare e classificare lo rendono difficile da collocare in ambito artistico. Lui stesso era consapevole di questa problematica, ma non poteva agire diversamente, amante com’era della sua libertà di artista in una Milano in continuo fermento culturale ed economico, dove da giovane conosce e frequenta il grande pittore Filippo de Pisis e il suo entourage. Dall’incontro con de Pisis, che lo instrada nel mondo dell’arte e lo guida verso la pittura francese, in particolare verso l’Impressionismo; al viaggio in America dove incontra Pollock e l’Espressionismo astratto; alla frequentazione della Galleria del Naviglio, dove si lega a Carlo e a Renato Cardazzo, a Lucio Fontana, ai giovani spazialisti e agli esponenti del movimento nucleare; fino alla conoscenza di Beniamino Joppolo e di Pierre Restany, mentore del Nouveau Réalisme, Bianco è stato al centro degli ambienti più fecondi e stimolanti degli anni cinquanta e sessanta: “Non dimentichiamo”, ricorda Restany, “che Remo Bianco si è formato nel dopoguerra alla scuola dello spazialismo milanese di Carlo Cardazzo e che egli ne ha tratto una doppia lezione di energia e di eclettismo – in una parola sola – di libertà”.
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L’obiettivo di questa mostra è di illustrare, attraverso le opere ed i documenti conservati nell’archivio della Fondazione Remo Bianco, i periodi espressivi più intensi dell’artista, a partire dalle Impronte, uno dei periodi più originali della sua produzione, passando dalle Pagode (grazie alle quali sfioreremo i Collages e i Tableaux dorés, forse la serie che lo ha reso più conosciuto), per soffermarci sui Sacchettini, sulle opere tridimensionali, sulle Sculture neve e sugli originali Quadri parlanti.
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta Bianco esegue le prime Impronte, calchi in gesso, cartone pressato o gomma ricavate dai segni lasciati, ad esempio, da un’automobile sull’asfalto, o da tracce di oggetti quali giocattoli o attrezzi. L’obiettivo dell’artista è continuamente quello di recuperare “le cose più umili che di solito vanno perdute”, come scrive nel Manifesto dell’Arte Improntale del 1956.
Risalgono all’inizio degli anni Cinquanta anche i Sacchettini - Testimonianze, realizzati assemblando elementi di poco valore - monete, conchiglie, piccoli giocattoli, frammenti - in sacchetti di plastica allineati in maniera quasi maniacale e fissati su legno, da appendere come un quadro tradizionale. Risalgono allo stesso periodo le prime opere tridimensionali in materiale plastico trasparente o vetro e, in seguito, su legno, lamiera e plexiglas colorato, in cui l’immagine e la combinazione di figure poste in successione su piani differenti ne esaltano la profondità. Concepita in seguito a un viaggio di Bianco negli Stati Uniti, la serie dei Collages va dalla seconda metà degli anni Cinquanta fino agli anni Ottanta e si basa su un effetto combinatorio di immagini, realizzate con la tecnica del dripping, tecnica pittorica caratteristica dell'action painting americana, elaborata alla fine degli anni quaranta da Jackson Pollock, in cui il colore viene lasciato sgocciolare sulla tela distesa per terra da un contenitore bucherellato o schizzato direttamente con le mani mediante l'uso di bastoni o pennelli.
La mostra prosegue con i primi Tableaux Dorés, del 1957, uno dei cicli più noti dell’artista, in cui sullo sfondo bicolore, trattato a olio o a smalto, sono disposte le foglie d’oro, mentre altre opere presentano lo sfondo monocromo o sono realizzati con paglia o stoffa. Dal 1965 in poi l’artista esegue alcune opere racchiuse sotto la definizione di “Arte sovrastrutturale” che, tramite un processo di “appropriazione artistica” di oggetti, cose e persone, rispondono al bisogno impellente dell’artista di fissare ricordi e realtà nella memoria. Rientrano in questa serie le cosiddette Sculture neve, teatrini poetici i cui protagonisti sono oggetti comuni tratti dal mondo dell’infanzia, della natura o della vita quotidiana ricoperti di neve artificiale e disposti in teche trasparenti: immobile sotto il manto bianco che la riveste, la composizione trasporta il fruitore in una dimensione onirica senza tempo.
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Per finire, i Quadri parlanti, esposti per la prima volta nel 1974, sono tele talvolta non lavorate in cotone bianco o nero, talaltra impressionate con fotografie, sul cui retro sono posizionati degli amplificatori che, all’avvicinarsi dello spettatore, emettono suoni o frasi registrate dall’artista. Il più noto è senza dubbio “Scusi signore…” in cui Bianco si autoritrae con il dito puntato, immagine utilizzata nel 1965 quando, durante una personale alla Galleria del Naviglio, la foto compariva su tutti i tram milanesi a coinvolgere l’intera comunità. L’inserimento della voce umana documenta il tentativo di superare la dimensione tradizionale del quadro. Il tema e il bisogno di dialogare con il pubblico, trasformando la tela nel luogo dell’ascolto e, soprattutto, del ricordo, risulta essere il punto focale del percorso dell’artista.
L’esposizione al Museo del Novecento ripercorre il ricco e sorprendente percorso di Remo Bianco esplorando proprio il tema della memoria, attraverso le sue opere e tramite un’esaustiva documentazione d’archivio: cataloghi, manifesti, articoli e fotografie d’epoca.
“Grazie alla preziosa collaborazione con la Fondazione Remo Bianco”, afferma la Direttrice Anna Maria Montaldo, “prosegue la nostra attività di ricerca sulle sperimentazioni artistiche
della seconda meta del secolo. Presentare il lavoro di Bianco in maniera ragionata ha fornito l’opportunità di immergersi in alcuni dei milieu culturali più interessanti degli anni Cinquanta e Sessanta, guidati dal costante stimolo della mente ironica e indagatrice dell’artista”.
Correda la mostra un catalogo edito da Silvana, corredato dai testi di Lorella Giudici ed Elisa Camesasca, dagli apparati a cura di Gabriella Passerini e Alberto Vincenzoni e riporta un’interessante intervista a Marina Abramović, del 2012, riguardo al lavoro di Remo Bianco conosciuto nel 1977.