Stampa questa pagina

De Chirico e il suo tempo.

Oltre la metafisica
(E la voce critica di Roberto Longhi)
dechirico3
Si potrebbe partire da quel 1919, giusto cent’anni fa, che rimane una data cruciale per il grande metafisico. L’episodio è notissimo: De Chirico allestisce una mostra alla romana Casa d’arte Bragaglia, che in un primo tempo doveva consistere in “un’esposizione di disegni; una trentina circa”, Progetto per buona parte modificato così da presentare una panoramica abbastanza esaustiva dell’intera sua produzione metafisica. Scelta che forse riteneva opportuna anche per dissipare ogni dubbio sul ruolo svolto in questa moderna via della pittura, del tutto autonoma rispetto alle avanguardie che proprio dai suoi esordi metafisici avevano tenuto banco giusto fino a quella data: a cominciare da cubismo, futurismo e le prime espressioni dell’astrattismo, per intenderci. […] Per quella mostra aveva chiesto all’amico Papini, collaboratore del quotidiano ‘Il Tempo’, una recensione che immaginava sarebbe stata senz’altro favorevole. Lo scrittore gli suggerì invece di contattare Roberto Longhi, allora molto giovane, non ancora trentenne, ma che, come assicurava Papini, “capiva più degli altri”. […] Viene dunque la recensione di Longhi, che aveva visitato in silenzio l’esposizione accompagnato da un de Chirico prodigo di spiegazioni, e concludendo l’incontro con l’invito a prendere un ‘coffee’ (lo pronunciava snobisticamente in inglese lo studioso) mentre continuava ad ascoltare il pittore e “perfidamente, satanicamente, orrendamente forgiava già nell’imo fondo del suo animo il colpo mancino”, come poi ricorderà de Chirico.
dechirico5
Dunque, la stroncatura, rimasta famosa, e anzi famigerata, che era seguita a quella non meno velenosa pubblicata da Longhi su De Pero (scritto proprio così), che per certe analogie ne costituisce un significativo anticipo. Col sospetto, forse non infondato – anche se quasi mai considerato – che l’impietosa recensione dell’esposizione dechirichiana tornasse a vantaggio di Carrà, considerando che il sodalizio fra i due ex sodali della metafisica si andava logorando, mentre si rinsaldava il rapporto fra Longhi e Carrà sfociato poi in una duratura amicizia. […] Accusato il colpo, de Chirico ha la rivelazione del ‘classico’, come ricorda, davanti al Tiziano al museo di Villa Borghese. E a conclusione dello scritto ‘Ritorno al mestiere’ per la rivista ‘Valori Plastici’ si spinge a proclamare “Per mio conto sono tranquillo, e mi fregio di tre parole che siano suggello d’ogni mia opera: Pictor classicus sum”. Vale a dire un pittore fuori dallo scorrere del tempo e del divenire delle vicende artistiche. E molto diversamente da Carrà, che il suo museo, ovvero i suoi modelli storici, li aveva già dichiarati, de Chirico si spinge a sostenere che occorre ripartire dall’accademia, dal disegno, dalle copie dei gessi, per riappropriarsi di un mestiere che la pittura moderna sembra aver dismesso.
Nascono le ville romane, ritratti e autoritratti, nature morte, busti classici, figure mitologiche e nudi di donna, non senza che riappaiano ancora manichini, magari con resti archeologici incorporati; e interni metafisici, e gladiatori spaesati nel chiuso di una stanza, e mobili nella valle, ancor più ‘déplacés’, e cavalli in riva al mare, magari su une plage antique come confermano templi e rocchi di colonne. Insomma, un campionario di soggetti che va ad includere anche copie di capolavori del passato. E intanto, altri artisti, con antenne spesso più sensibili di molta critica, interpretano ognuno in modo proprio la pittura metafisica: da Sironi a Casorati, per non parlare della breve stagione metafisica di Morandi in uno scorcio di tempo sul finire del secondo decennio del secolo. […]
dechirico4
Entra in scena nei primi anni ’20 il ‘Novecento’, sotto l’intelligente tutela di Margherita Sarfatti, l’antesignana delle critiche d’arte, apprezzata anche oltre i confini nazionali. Il gruppo, inizialmente di sette artisti con Sironi in primo piano si allargherà in pochi anni a dismisura giungendo a superare il centinaio di adepti. […] Il ‘realismo magico’ che Bontempelli mutua per l’Italia dal critico tedesco Franz Roh, offre da parte sua una riscoperta di figure e ambienti di una realtà quotidiana come sospesa in un tempo fermo, per certi aspetti di suggestione ancora metafisica, con figure come Donghi, e Funi che già si era inscritto fra i sette artisti del primo gruppo di ‘Novecento’. Col riscoperto (da Longhi) Piero della Francesca quale riferimento all’antico. “Un realismo preciso, avvolto in un’atmosfera di stupore lucido”, come scriveva lo stesso Bontempelli. Che diventa un fondamentale, ineludibile riferimento anche per quell’École de Rome con Melli, Capogrossi, Cavalli e Cagli, così definita da Valdemar George in una mostra parigina del 1929. È anche il tempo romano della ‘Scuola di via Cavour’, come la chiamò Roberto Longhi. Protagonisti, tre giovani: Scipione, una folgorante meteora, coi suoi turbamenti, diviso fra l’Apocalisse di Giovanni e Une saison à l’infer di Rimbaud, e una visionarietà barocca, scomparso a nemmeno trent’anni; l’amico Mario Mafai e la compagna Antonietta Raphael, lituana dalle intense accensioni cromatiche. Una pittura, la loro, quanto più lontana dalla severa monumentalità di certo ‘Novecento’, ormai attaccato anche dal regime per quanto alcuni protagonisti, Sironi in testa, fossero impegnati soprattutto negli anni ’30, in una decorazione muraria di pubblica committenza, celebrativa di motivi e miti del fascismo.
Con uno sguardo all’antico, ma filtrato da tutt’altra cultura attraverso le esperienze parigine, si ritrova Campigli che già era stato corrispondente del Corriere della Sera nella capitale francese e che si rivolge, in un arcaismo sui generis, soprattutto all’arte etrusca ed egizia, del tutto estraneo al culto montante della romanità imperiale nella retorica del regime.
dechirico1
A Parigi fin da prima del futurismo, e con frequentazioni dell’élite dell’avanguardia artistico – letteraria francese, Severini, passato nelle file della compagine marinettiana ad una vicinanza al cubismo sintetico e all’orfismo, era giunto poi al recupero di una figurazione classica, dedicandosi, dopo l’incontro con Maritain, anche a cicli di soggetto religioso, e alla pratica della decorazione rilanciando una tecnica quasi dismessa come il mosaico. Vie del tutto personali, quasi estranee al fervore e alla logica dei gruppi ufficiali, delle tendenze codificate, sono quelle percorse da alcune figure – per fare solo qualche esempio – come l’estroso De Pisis, svezzato nella Ferrara metafisica a contatto soprattutto con de Chirico e Savinio. E Licini, ormai in crisi col suo particolare ‘realismo’ seguìto all’esordio precocissimo nella mostra rimasta famosa all’hotel Baglioni di Bologna nel ’14, in pieno clima futurista, con Morandi, Giacomo Vespignani, Bacchelli e Severo Pozzati (poi noto in Francia come Sepo, l’affichiste). Proprio nella città felsinea, Carlo Corsi, il documentatissimo ‘francese di Bologna’, guarda Vuillard e Bonnard ma per darne una rielaborazione di altro timbro nel mutare delle soluzioni cromatiche, nel variare dei motivi. Disponibile verso i più giovani molto più di Morandi, sempre più innalzato sopra un ambiguo piedistallo come grande ‘solitario di via Fondazza’. Savinio, fratello eclettico di de Chirico, musicista capace di sorprendere giovanissimo l’avanguardia parigina, scrittore cui il grande metafisico deve pur qualcosa – anche questo aveva insinuato Longhi nella sua stroncatura – e pittore di inconfondibile peculiarità, inscena la sua vena surreale con arguta intelligenza e diramata cultura. Intanto, il non più giovane Balla, archiviate le elaborazioni astratte e le ricerche plastiche nel pieno secondo futurismo, poco dopo la firma del ‘Manifesto dell’aeropittura’ conclude la sua vicenda col gruppo marinettiano per darsi ad una ritrattistica di un realismo mimetico apparso sconcertante per un protagonista dell’avanguardia del primo futurismo. Al punto di finire poi quasi dimenticato. […]
Quanto alla scultura, che Martini, il maggior scultore italiano della prima metà del secolo, avrebbe bollato nel ’47 – due anni prima della scomparsa – come “lingua morta” (ma riferendosi alla ‘statua’, ovvero ad un linguaggio plastico ormai desueto, privo di rispondenza alla ‘verità’ della vita), le vicende della plastica nel primo ‘900 avevano incontrato subito un inciampo critico. E di quale peso, come si sarebbe compreso in seguito, trattandosi ancora una volta di Longhi. Che ave- va esordito con ‘La scultura futurista di Boccioni’, anno 1914, di segno decisamente positivo per il protagonista maggiore del movimento, ma facendo strame, al contempo, di quasi tutta la scultura da Bernini in poi. […]
dechirico2
E ancora, in una recensione alla ‘Sindacale’ romana del ’29: “Solitamente spericolato sulle cime della scultura d’ogni tempo e luogo, Arturo Martini che ha da poco strabiliato a Milano con quel Figliol prodigo dove la plastica romanità del gruppo si complica di qualche barbarico tratto alla Shaw, imbussola oggi in queste sue quattro ‘teste’, con il piglio prestigioso di un imbonitore di lotteria, i numeri di Medardo Rosso, dei busti – reliquiario romanzi e dell’arte runica, di Modigliani e del Fayoum, della romanità e del vero. Numeri dosati diversamente in ognuna, ma sempre con una intelligenza da stordire”. Ma certo, tempo dopo, almeno Marini, e il “delicato vignettista” Manzù, e magari il Messina o il Minguzzi di certi anni, per fare solo due nomi, avrebbero meritato un’adeguata attenzione. […]
A tener conto, poi, che nel secondo dopoguerra, mentre per alcuni artisti, a cominciare da Sironi, ha inizio un pesante ostracismo per ragioni ideologiche, facendo per così dire d’ogni erba un fascio, de Chirico appare sempre più un grande isolato nel suo aristocratico distacco dalle tendenze di maggior grido su una scena artistica dominata dalle neoavanguardie. E anzi, tutta la sua storia è letta, molto arbitrariamente, come se quasi solo la stagione metafisica si dovesse inscrivere a pieno diritto fra le vicende capitali dei primi due decenni del secolo. In realtà sono quei valori tenacemente rivendicati da de Chirico a subire una confutazione sempre più radicale, fino alla negazione stessa della legittimità dell’opera e segnatamente della pittura. Quasi una parola d’ordine – poi rinnegata, come si è visto – delle neoavanguardie più radicali. E occorrerà attendere, appunto, un paio di decenni, in un clima generale nuovamente mutato, con recuperi quasi indiscriminati del passato remoto e prossimo, per fare cadere tutte le incomprensioni, o almeno rivederle, su tutta la multiforme opera dechirichiana, sulle sue diverse stagioni pur sempre fra loro strettamente legate e tenute insieme da un filo conduttore inconfondibile. Una storia capitale, come si è ben compreso, tra le più complesse del secolo.
Claudio Spadoni